UN VOLO IN VALSUGANA (tratto dal sito www.intraisass.it)

Mi piace portare alla vostra attenzione questo stupendo articolo di “vita vissuta” raccontata da uno degli alpinisti più noti, nonché maggiori conoscitori, degli anfratti rocciosi della Valsugana: Mauro Moretto. Mi sarebbe piaciuto intitolarla “Avventura sull’Eiger della Valsugana” ma ho ritenuto tener fede a chi per primo ha pubblicato l’articolo.

La corda, il nostro paracadute

Rovistando mentalmente le varie esperienze alpinistiche vissute in 25 anni di attività emerge prepotentemente un fatto di cui sono stato spettatore passivo, ma che ancora oggi ricordo con grande lucidità, e che ogni tanto mi piace raccontarlo agli amici con l’intento di farli riflettere sulla dinamica avvenuta, affinché possano trarne un insegnamento utile. Forse ciò che ho visto allora ha segnato il mio modo di andare in montagna.

Prima di entrare nel vivo dell’accaduto in quel sabato del 1982 apro una parentesi conoscitiva del luogo dove avvenne questa incredibile vicenda. La Valsugana, cioè quel solco vallivo che unisce Bassano del Grappa a Trento, divide all’inizio del suo percorso verso nord due massicci sedimentari. A sinistra l’Altipiano di Asiago e a destra il Monte Grappa. Entrando in essa da Bassano, dopo aver passato le località di Carpanè-Valstagna, la valle piega ad oriente e, tenendo gli occhi puntati in alto a sinistra del verso di marcia, si nota un imponente bastionata rocciosa multicolore posta sopra un basamento di pendii erbosi molto scoscesi e tormentati da numerose vallecole e solchi che nel fondovalle danno spazio a tipiche margiere, ovvero terrazzamenti agricoli costruiti dall’uomo e sfruttati in tempi passati per il sostentamento dei valligiani. La cima situata sopra questa fascia verticale, ma non visibile da sotto, è chiamata Sasso Rosso. Nel 1981 Lorenzo Massarotto, certamente uno degli interpreti più misteriosi dell’arrampicata dolomitica, assieme a Leopoldo Roman mise gli occhi su questa interessante formazione rocciosa alta da 250 ai 300 metri individuando una serie di diedri come linea logica di salita. Per antiche tracce di sentiero si portarono all’attacco previsto, ma le difficoltà, la chiodatura, e il poco tempo a disposizione, fecero slittare alla settimana seguente la realizzazione di questa prima via sulla parete Sud del Sasso Rosso. Il 4 aprile la salita venne completata con lo stile che contraddistingue l’alpinismo di Massarotto da sempre, confronto con leale con l’alpe, e pochissimi chiodi rigorosamente normali. Dalle parole dei due reduci dall’impresa emersero le vere difficoltà dell’ascensione, paragonata al Diedro Mayerl sul Sass d’la Crusc, con di più due grosse incognite, la qualità della roccia e la chiodatura quasi inesistente. Tutto ciò non fece altro che accrescere l’alone di temibilità ma anche di sfida. A questo punto entriamo nella sequenza dei fatti.

Le pareti della Valsugana nulla hanno da invidiare alle Dolomiti. Cordata su C.A.R.A

Come ogni venerdì sera ci trovavamo presso la sede locale del CAI di Bassano a ‘ciacolar’ scambiandoci esperienze, sogni nel cassetto, e a programmare salite con i vari compagni. Nella nostra cerchia alpinistica si era formato un bel gruppetto affiatato di amici. Nell’ascoltare Onofrio restammo stupefatti. Ci raccontò di aver fatto un tentativo in solitaria sulla via di Massarotto al Sasso Rosso (Valsugana Highway) arrivando alla fine del 5° tiro di corda, circa 160 metri di altezza, ma a causa del tempo impiegato per superare questo tratto in autoassicurazione, di luce a disposizione ce ne sarebbe stata troppo poca per uscire dalle difficoltà. A malincuore accettò la sconfitta e fece ritirata, con quattro corde doppie si riportò alla base.

Mezzo chiavistello era stato aperto, bastava aprire l’altra metà, ma non da solo. Cercava un compagno con cui condividere fatiche, dubbi, e speranze. Piero, altro forte arrampicatore del luogo, entusiasmato dal racconto dette la sua disponibilità per un nuovo tentativo previsto già per l’indomani. Nel mio intimo si mescolarono una serie di valutazioni istintive che durante il sonno notturno si trasformarono in sogni spiacevoli mescolati ad incubi. Alla fine del tunnel onirico, con la mente lucida, decisi di dissipare tutti i timori portandomi anch’io sotto la parete come spettatore. Parcheggiai l’auto a San Gaetano e cominciai a risalire la Val Bastion avvolto da molti pensieri cupi che svanirono con il passo regolare della salita. Camminando assaporavo il benessere che dà una bella giornata di primavera, quando l’aria è frizzante. Invece di salire per il fondovalle optai per un costone solare seguendo vecchie tracce di pensiero. L’abbandono era totale e gli steli d’erba secca molto fitti ed alti lo evidenziavano; lungi dall’ostacolarmi essi mi davano un sottile brivido di piacere accarezzandomi i pantaloni. Dopo circa un’ora ero al cospetto della maestosa parete, sull’apice di un pulpito erboso, con una visione superba di tutta la fascia rocciosa antistante.

Cercai di individuare i due amici, erano già alla fine del 4° tiro di corda e Onofrio si stava preparando per affrontare il 5° tiro a lui familiare. Nulla lasciava presagire ciò che sarebbe accaduto poco dopo. Bene! Pensavo tra me ora potrò godermi le fasi di questa ascensione con tutta tranquillità e senza la tensione che comporta una via del genere quando ci sei dentro. Posai lo zaino per terra. Onofrio era salito a circa 10 metri e Piero lo assicurava diligentemente. Sentii il martellare di un chiodo, il mio sguardo era incollato alla parete…

All’improvviso vidi cadere il capocordata, fu come una mano mi entrasse nello stomaco, il mio cuore si fermò per un attimo. In una frazione di secondo il corpo dell’alpinista aveva già percorso 20 metri. Nel silenzio irreale sentii un colpo sordo che proveniva dai polmoni di Onofrio, per un attimo mi sembrò che la corda avesse arrestato il volo. Il chiodo di assicurazione si sfilò immediatamente, la caduta continuò inarrestabile. Quando fu all’altezza della seconda sosta le corde iniziarono a tendersi e, con l’elasticità residua, arrivò quasi a toccare con i piedi una zona rocciosa piuttosto piana. Altri 2 metri e le sue gambe si sarebbero fracassate contro la roccia.

Non riesco ad emettere nessun suono dalla bocca, ma capisco che tutto ciò è finito. Qualcosa ha tenuto nel sistema di assicurazione, sento anche il grido drammatico di Piero che urla al suo compagno. Riesco a farmi riconoscere ma lui ha una paura matta che si sfilino anche i chiodi rimasti. Ad occhio e croce sono oltre 60 metri di caduta verticale. Continuiamo a gridare ma nessuna risposta si fa sentire, i secondi sembrano ore. Dopo un minuto di richiami sentiamo finalmente la sua voce: si scusa per non aver risposto prontamente a causa della mancanza del respiro e afferma di star bene. Rassicuro Piero sulle condizioni di Onofrio visto che i due non si sentono direttamente. Ciononostante la situazione è complicata perché Piero non si può muovere, infatti le corde attaccate al suo imbrago non erano collegato alla sosta con un barcaiolo (nodo di autoassicurazione) ma andavano direttamente giù al protagonista del volo, l’unica cosa che tratteneva Piero sulla cengia era un misero cordino da 5 mm che collegava l’imbrago al chiodo di sosta con un fiffi (gancio che si usa nelle staffe per la tecnica di arrampicata artificiale e del carico massimo di circa 200 Kg).

Pian piano si stava chiarendo la dinamica dell’incidente. Il primo errore lo fece Piero che nel preparare la sosta non collegò tra loro i vari ancoraggi bensì agganciò ad un chiodo il fiffi mentre sull’altro chiodo fece il nodo di assicurazione dinamica (mezzo barcaiolo). Alternandosi alla guida della cordata Onofrio ripartì e poco sopra commise anche lui un grosso errore perché non rinviò le corde sul primo ancoraggio incontrato dopo 9 metri, ma mise solamente la staffa innalzandosi per prendere il chiodo successivo. Non sicuro dell’affidabilità di quest’ultimo, visto che durante il tentativo in solitaria lo aveva piantato a metà, dette alcuni colpi di martello per assestarlo, quindi si agganciò di peso. La fuoriuscita fu immediata ed il volo inevitabile.

Nell’impiccio in cui ora si trovavano esisteva un’unica soluzione, e la doveva attuare Onofrio. Bastava percorrere qualche metro di rocce facili per raggiungere la seconda sosta. Ma per fare ciò era necessario slegarsi dalle corde che lo trattenevano e che immobilizzavano anche il suo compagno 50 metri più in alto. La tensione raggiunse una nuova apice. Con un sospiro di sollievo lo vidi raggiungere la sosta slegato ad 80 metri dal suolo. A questo punto Piero poteva iniziare le manovre per la discesa in corda doppia. Le sue mani erano ustionate a causa del tentativo di trattenere il volo, la discesa fu un calvario, ma alla fine i due erano di nuovo uniti.

Nel ritirare le corde per proseguire la discesa avvenne un altro colpo di scena, si impigliarono! Uno dei due ora doveva risalire con i nodi prusik e Onofrio ancora sotto shock non esitò a ripartire verso l’alto e, dopo aver sistemato il tutto, ridiscese. Finalmente dopo una serie di circostanze sfavorevoli le cose prendevano il verso giusto, e con altre due doppie raggiunsero la base della parete. Io naturalmente ero lì ad aspettarli assieme ad altri amici di Onofrio venuti anche loro per assistere allo ‘spettacolo’, la parte più forte di esso però era già avvenuta. Ad essi non restava altro che immaginare l’accaduto come del resto a chi sta leggendo queste righe. A me invece rimase la registrazione visiva con annessi e connessi di una tragedia mancata. Certamente casi simili a questo sono avvenuti raramente nell’ambito alpinistico. Mi sovviene il caso di Walter Phillipp, il salitore del grande diedro sulla Nordovest del Civetta: anche lui ebbe un volo simile. Ma la cosa che ancor oggi mi lascia stupito furono le lievi conseguenze fisiche che riportarono i miei due amici da un evento potenzialmente così distruttivo. Piero ebbe tutti e due i palmi delle mani ustionati dallo sfregamento delle corde mentre a Onofrio, poi portato in ospedale, venne riscontrata una frattura dell’ultima cartilagine in basso della cassa toracica dovuta ad una delle fibbie dell’imbrago integrale che, messa in tensione dalla frenata momentanea dei primi 20 metri (con fattore di caduta pari a 2! cioè il massimo di potenza di caduta diventò un corpo contundente).

L’Eiger della Vasugana

Nel 1985 feci la terza ripetizione dell’itinerario e passando quei tratti rocciosi dove si svolse il volo, non senza un pizzico di apprensione, mi resi conto della fortuna sfacciata che inconsapevolmente i miei amici portavano con sé. La traiettoria di caduta era l’unica linea sicura priva di ostacoli di sorta, qualche metro a sinistra o indistintamente a destra avrebbe provocato conseguenze molto gravi. Mi auguro che questa testimonianza possa essere un piccolo contributo alla presa di coscienza che tutte la manovre adottate in cordata vanno eseguite correttamente. Di errori purtroppo è pieno il mondo, l’importante è la possibilità che dà il destino di correggerli.

Pubblicato da spazivuoti

Nato in qualche luogo pianeggiante, tra capannoni, zanzare, arte, e sullo sfondo le montagne.